Qualche volta arrivano alla mente fugaci ricordi, immagini, sensazioni di un tempo che va oltre questa vita. Talvolta, invece, si hanno veri e propri ricordi, anche particolareggiati, di esistenze precedenti. In ogni caso, generalmente, non si ricorda l’intera vita ma solo alcuni fatti, di solito molto significativi o che hanno generato forti emozioni. Di seguito, racconto alcuni miei ricordi.
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Al tempo dei Romani, mi vedevo a passeggiare con un’amica; eravamo entrambe molto giovani, io ero vestita con una tunica bianca e avevo i capelli castani e lunghi, all’improvviso un uomo mi pugnalò alle spalle. Lo raccontai a mia madre e lei mi chiese: “È un sogno?”. “No”, risposi, “Io sento che mi è successo in una vita precedente.”
In un’altra esistenza ero un’indiana d’America di circa vent’anni e indossavo una gonnellina molto corta e una camicia stretta; avevo i calzari tipici degli sciamani e passeggiavo in una grande prateria in compagnia di un ragazzo anch’egli indiano.
In un’altra vita ancora fui annegata in una vasca da bagno; ero una bambina di circa tredici anni e ricordo l’immagine delle mie braccia a penzoloni fuori dalla vasca nel tentativo di uscire. Un’altra volta mi vidi in una bambina che tornava a casa da scuola e passava sotto un arco prima di entrare in una piazza. Riconobbi in televisione l’arco in un documentario che stavo guardando con mia figlia. Come lo vidi, di scatto mi venne spontaneo esclamare: “Vedi, di lì passavo sempre per andare a casa!.” Poi io stessa mi fermai per lo stupore e dissi tra me: “Ma cosa sto dicendo?” Difatti nello stesso istante mia figlia disse: “Mamma cosa dici? Questo arco si trova nel Mysore, un distretto dello stato indiano del Karnataka”.
In un’altra vita sono stata maltrattata e decapitata.
Un’altra volta passeggiavo sottobraccio con mia sorella, appartenevamo a una famiglia ricca, indossavamo vestiti con corpini stretti e ampia scollatura, e gonne lunghe e larghe con i cerchi, arricchite da pizzi e merletti. Incontrai questa “sorella” in una vacanza al mare in Liguria. Io e mia figlia sedevamo al tavolo da pranzo del ristorante dell’hotel e al tavolo accanto a noi c’era una signora che pranzava da sola. Iniziammo a chiacchierare e notai che la simpatia era reciproca. Intuii che lei era mia sorella e nacque fra noi una bellissima amicizia che dura tuttora nonostante la distanza: lei, infatti, vive in Belgio, ad Anversa; ci sentiamo spesso al telefono e una volta, dietro suo invito, siamo state ospiti a casa sua per tre giorni.
Solo una volta ricordo di essere stata un uomo: ero un ragazzo di una trentina d’anni o poco più; camminavo per strada, indossavo giacca e pantaloni neri e avevo i capelli un po’ lunghi. Qualcuno mi ha colpito a morte.
Ma il ricordo più forte e particolareggiato è quello di una vita del Medioevo. Se mi capita di pensarci mi prende ancora la tristezza.
Dopo una cena in giardino, d’estate, mia figlia, che allora aveva poco più di vent’anni, mi fece vedere una fotografia in cui era ritratta con un’amica e un giovane che non riconobbi subito. Ma appena lo vidi nella foto, accadde una cosa strana: sentii un brivido in tutto il corpo; al che lasciai subito la foto dicendo: “Mamma mia”. Mia figlia, preoccupata, mi chiese: “Perché hai fatto così? Cosa è successo?” “Ah niente, niente”. Mi sentivo nervosa, avevo paura, mi venne da piangere e non sapevo neanch’io il motivo. Per non farmi vedere in quello stato mi allontanai. A quel punto lei mi disse: “Mamma è Luigi!” A sentir quel nome mi sentivo ancora peggio. Tutto a un tratto mi prese una profonda tristezza e scoppiai in un pianto ininterrotto. Allora raccolsi i piatti per andare a lavarli in taverna. Mia figlia aggiunse: “Ma non è possibile! Lo so che non ti andava a genio che lo frequentassi ma non capisco perché dopo anni che non ci vediamo più, tu reagisci così solo perché hai visto la sua foto.” Io replicai: “Tu hai ragione perché non sai quanto io sto male al solo vederlo in foto, e non sapevo neanche che fosse lui. Quando mi hai detto il nome, cosa assurda per me, sono scoppiata a piangere e non so neanche il perché.”
Non lo avevo riconosciuto perché era cambiato un po’; in particolare nella foto si vedeva un po’ di barbetta al mento che prima non aveva. Fu quella a scatenare in me l’angoscia, un turbamento incredibile mai provato. Andai in taverna con i piatti da lavare. Quindi chiesi aiuto al Signore e dissi: “Ma perché tutto questo? Cosa significa questo pianto e tristezza? Signore io non capisco!”
La risposta fu: “Perché lui era il tuo carnefice!” E in quell’attimo stesso mi vidi ragazza giovane, indossavo una tunica bianca, larga e lunga fino ai piedi, portavo sulle spalle un lungo mantello azzurro e avevo i capelli lunghi quasi biondi e ricci che mi scendevano sulle spalle. Mi guardai i piedi ed erano nudi. Mi trovavo in una piazza gremita di gente che mi guardava. In mezzo alla piazza c’era una pira pronta e un palo. Mi fecero salire sulla pira. Mi accompagnava un prete con la croce in mano e un uomo che mi legò le mani dietro la schiena. Insieme a lui salii per una scaletta strettissima e dopo mi legò al palo sopra la pira. Allora guardai tutta la gente che c’era in piazza. Una donna uscì su un balcone che si trovava all’altezza della pira, mi guardò in viso e gridò: “Strega!”, poi entrò in casa e chiuse la porta finestra.
Sapevo che erano stati i sacerdoti a condannarmi. Riconobbi nell’uomo che andò alla pira per accendere il fuoco il ragazzo della foto. A quei tempi era solo un po’ più alto di statura e un po’ più robusto. Indossava soltanto un paio di pantaloni neri ed era a torso nudo. Aveva la barbetta al mento.
Lo vidi quando si avvicinò alla pira con una torcia che era un bastone con la punta accesa. Stava appiccando il fuoco alla catasta di legna al cui centro c’ero io legata al palo. Guardai i miei piedi e vidi le fiamme che li lambivano già; a quella vista svenni e non ricordo più niente, e quindi sparì la visione.
Allora capii tutto. Il turbamento, la tristezza, il pianto, e anche il rifiuto verso quel ragazzo quando frequentava mia figlia.
Continuai a lavare i piatti; non piangevo più, mi sentivo più calma. E quando mi tranquillizzai del tutto tornai di sopra e raccontai ciò che avevo visto e sentito. Mia figlia non aprì bocca, rimase ammutolita. Io dissi: “Questo è successo nel Medioevo, quindi non ce l’ho con lui, lui non c’entra. Non fu lui a condannarmi, lui eseguiva solo l’ordine. È stata la vista di quella barbetta a scatenare il turbamento”.
Concludere le incarnazioni
Certamente ci sono state tante altre vite che non mi ricordo; sento solo la stanchezza di tutte quante insieme. Una volta mi trovai a dire, parlando con Debora: “Quanto sono stanca di venire sulla Terra, vorrei tanto non venire più”. Mia figlia interpretò male e mi disse: “Mi dispiace che non ami la vita!”. Le risposi: “Ma non si tratta di non amare la vita, certo che l’amo, ma la ragione è un’altra. Io mi riferisco a tutte le esistenze messe insieme che ho già vissuto prima di questa e che mi hanno resa veramente stanca. Ed è per questo che spero di non venire mai più su questa Terra. Mi pare proprio che questo sia un romanzo a puntate, ogni esistenza è una puntata, spero proprio che il mio romanzo sia finito.”